L’ultima volta che invocammo indignati la pena di morte per un “mostro”, fu nel lontano agosto del 1993 allorquando il “mostro” rispondeva al nome di Luigi Chiatti.
Nato Antonio Rossi, partorito da una giovane cameriera, ragazza madre che lo abbandonò in orfanotrofio dove il mostro di Foligno, così ricordato dalle cronache dell’epoca, restò per cinque anni prima di essere adottato da un medico di Foligno Ermanno Chiatti e dalla moglie Giacoma Ponti.
Luigi Chiatti uccise due bambini. Simone Allegretti di 4 anni nell’ottobre del 1992 e Lorenzo Paolucci di 13 anni nell’agosto del 1993. Per tali delitti fu inizialmente condannato a due ergastoli ma l’11 aprile 1996 la corte d’Assise d’Appello di Perugia riformò la sentenza di primo grado, dichiarando Luigi Chiatti semi-infermo di mente condannandolo a 30 anni di reclusione.
Il Chiatti, considerati gli “abbuoni” per buona condotta, ha praticamente scontato la sua pena e avrebbe dovuto già essere un uomo libero se non fosse ancora un pericolo per la società per cui resta detenuto in una struttura sanitaria per la sua “semi infermità mentale”.
All’epoca non c’erano i social, ma l’indignazione scosse ugualmente il Paese, tanto che l’onda emotiva fece si che moltissima gente auspicò a gran voce il ripristino della pena capitale.
La pena di morte, lo ricordiamo, è stata in vigore fino al 1889, reintrodotta durante il fascismo dal 1926 al 1947 e rimossa definitivamente anche dal Codice Penale Militare di Guerra e dalla Costituzione nel 2007.
Oggi, dopo la tragedia di Senago il nuovo “mostro” risponde al nome di Alessandro Impagnatiello. Ha ucciso la sua compagna e il figlio che Giulia Tramontano portava in grembo e lo ha fatto sferrando cinque colpi di coltello alla gola della giovane ventinovenne, colpevole solo di aver scoperto una montagna di menzogne poste in essere dal “mostro”.
Era “stressato”. Così ha dichiarato Alessandro Impagnatiello nel suo primo interrogatorio dinnanzi al Gip che, ha cominciato ad escludere la premeditazione nonostante i moltissimi indizi, ma questa è un’altra storia dove, visti i tempi biblici della giustizia italiana, avremmo modo di ritornarci.
L’opinione pubblica si divide, soprattutto sui social, sull’ipotesi del ripristino della pena di morte per delitti particolarmente efferati, anche se, giusto ribadirlo, è ancora una timida minoranza a chiederla. Lo fa quasi sottovoce per non turbare le “anime Pie”, quelle che quando passeranno a miglior vita non emaneranno il lezzo pestilenziale della cancrena, ma odoreranno di violette e fiori di campo. Quelli del pensiero unico dominante nel quale non solo si esorta “a non toccare Caino”, ma nei fatti, lo si copre, lo si difende e lo si assolve e lo si incoraggia.
Quarantasette femminicidi dall’inizio dell’anno per mano dei nuovi “mostri” (la mafia è “appena” a 36), sono serviti solo a ritinteggiare di rosso qualche panchina e riempire qualche convegno con discorsi di circostanza. Nulla di più.
Autorevoli buonisti scrivono: “La pena di morte non ci renderebbe uomini migliori”. Non crediamo che si tratti di una gara che stabilisca chi è il migliore, ma solo la ricerca di una soluzione che possa impedire uccisioni di innocenti. E se questo comporta la soppressione dei “mostri”, ben venga il ripristino della pena capitale poiché, e ne siamo convinti, l’ipocrisia bavosa dei buonisti del terzo millennio non farà altro che riempire fosse con altri cadaveri di persone innocenti.